mercoledì 15 marzo 2023

TTR: Alcuni spunti del “Discorso elementare sulle somiglianze e sulle dissomiglianze fra liberalismo e socialismo” di Luigi Einaudi.

In tutte le discussioni aperte da Calenda e Renzi sul nuovo partito del Terzo Polo compare sempre la parola Liberale.

Anche il nome più gettonato per il nuovo partito “liberaldemocratico” la contiene.

Molti di noi iscritti e attivisti di Azione e Italia Viva provengono da una delle molte anime del Socialismo democratico.

Qui si parla di Socialismo di fine anni cinquanta, non di Partito Democratico che è la somma di Post-Comunisti e di Cattolici Progressisti.

Proprio questi Cattolici, dopo la vittoria a valanga di Elly Schlein, come dice Giorgio Merlo, sono destinati a ricoprire lo stesso ruolo che ebbero negli anni ‘70 i “cattolici indipendenti di sinistra” all’interno del glorioso Partito Comunista Italiano.

Frugando nell’archivio della Fondazione Luigi Einaudi, nel cui Consiglio è entrato da poco l’ex Senatore lucchese Marcucci, abbiamo trovato un interessante discorso su Liberale e Socialista.

Think Tank Reformists propone oggi la rilettura parziale di alcuni brani di una lunghissima riflessione del 1957 di Luigi Einaudi “..Sulle somiglianze e sulla dissomiglianza fra liberalismo e socialismo”

Tutto l’articolo si può leggere integralmente su https://www.luigieinaudi.it/doc/discorso-elementare-sulle-somiglianze-e-sulle-dissomiglianze-fra-liberalismo-e-socialismo/?sterm=liberale

Di seguito riportiamo solo alcuni brani molto attuali per una serena discussione mentre ci accingiamo a costruire da Socialisti un nuovo partito Liberale.

Alcuni spunti del “Discorso elementare sulle somiglianze e sulle dissomiglianze fra liberalismo e socialismo” di Luigi Einaudi.

…non pare inopportuno osservare che unificazioni ed intese e patti e colloqui debbono fondarsi su un’idea. Se un’idea, che sia politica e cioè definisca un’azione, non esiste, di che cosa possono discorrere i capi dei partiti per giungere ad un accordo od alla constatazione del dissenso?

…Chi distinguerà però gli uni dagli altri? Come impedire che i furbi cattivi ed ignoranti non prevalgano sui buoni e sui sapienti? Altra via non c’è fuor del contar le teste, che è metodo, per sperienze anche recenti, migliore del farle rompere dai più forti decisi a conquistare o tenere il potere. Il mito è valido, nonostante la dimostrazione data da Ostrogorscki, da Mosca, da Pareto, da Michels, da Schumpeter che non avendo gli elettori libertà di scelta – la libertà di scelta è sinonimo di dispersione di voti e quindi di confusione – se non fra i candidati, ed essendo i candidati proposti necessariamente dai capi di gruppi organizzati, detti partiti, la scelta è fatta non dagli elettori, ma dai fabbricanti auto-selezionati di gruppi politici. Il che è vero, ma, di nuovo, quale metodo migliore se non il diritto di tutti i volenterosi di farsi capi-gruppo e di scegliere così di fatto gli eletti? Solo l’educazione politica giova a consentire una scelta non del tutto infelice tra i candidati….

A coloro i quali “sanno”, i quali conoscono la “verità” e credono di avere il dovere di attuarla, noi dobbiamo opporre il principio che noi conosciamo la verità solo se e finché abbiamo la possibilità di negarla; che il solo criterio della verità politica, come di ogni altra verità, è il diritto illimitato di discutere le regole accettate nel costume o nelle costituzioni scritte, di criticare gli ordinamenti esistenti e gli uomini al potere, di adoperarsi per mutare gli uni e per cacciare gli altri di seggio, il diritto delle minoranze di trasformarsi, in virtù di persuasione, in maggioranze. Nella diuturna battaglia per la conquista del potere politico, i combattenti hanno d’uopo di fare appello a parole d’ordine, a grida di battaglia. Che sono, per lo più, quelle parole prive di contenuto, delle quali si disse sopra; e sono parole che variano di tempo in tempo, di luogo in luogo, e sono ripetute, da uomini di diverse parti politiche, identiche spesso nel suono verbale e deferentissime nel sottinteso significato sostanziale.

Se ben si guarda, esiste tuttavia, attraverso il velame delle parole apparenti, un filo conduttore, il quale consente, a chi voglia, di vedere e tentare di orientarsi. Quel filo conduttore è il contrasto, che ad ogni volta vien fuori tra i due principi del “liberalismo” e del “socialismo “. In tutti i partiti, cattolici o democristiani, monarchici, repubblicani, conservatori, progressisti, liberali, radicali, socialisti, laburisti, democratici, qualunque sia il nome assunto a simbolo del partito, due sono i principi che, discutendo di problemi politici, economici, sociali, materiali o spirituali, si contrappongono: l’idea della libertà della persona umana e l’idea della cooperazione o solidarietà o dipendenza reciproca degli uomini viventi in società. Gli uomini, tutti gli uomini, sentono il valore dei due principi ed ora prevale in essi l’uno ed ora l’altro; e se i più sono legati alle tradizioni familiari, all’opinione del proprio ceto sociale, alle amicizie ed alla iniziata consuetudine di voto, esiste sempre in ogni luogo e tempo, là dove le opinioni ed i voti sono liberi, ed una maggioranza fino al 60 % dei votanti è reputata l’optimum della sanità e della stabilità politica, esiste sempre un margine di uomini fluttuanti i quali bastano a dare la vittoria, bastano a trasformare la minoranza di ieri in maggioranza di oggi.

Negli stati stabili le somiglianze tra le due grandi correnti d’opinione sopravanzano di gran lunga le dissomiglianze; ed oggi in Inghilterra, negli Stati Uniti, nei paesi scandinavi, nella Svizzera, nel Belgio e nell’Olanda, le dissomiglianze fra i due partiti o fra i due gruppi di partiti sono minime; e si riducono a piccole sfumature, rispondenti, più che a differenze sostanziali, a minori modalità di attuazione di principi universalmente accettati.

Non presumo di saper cogliere la più parte delle somiglianze e delle dissomiglianze fra l’idea liberale e l’idea socialistica. Vorrei solo esaminare quali siano le somiglianze e le dissomiglianze tra gli uomini i quali nel nostro paese tendono verso il liberalismo e quelli i quali guardano al socialismo.

Liberali e socialisti sono concordi nel sentire vivamente il rispetto della persona umana; che direi, più semplicemente, il rispetto dell’uomo. I liberali non aggiungono nulla alla parola “uomo”, e sono accusati dai socialisti di essere difensori di una particolare specie di uomo, che sarebbe l’uomo “borghese”. I socialisti vagamente aspirano a liberare un’altra sottospecie di uomo, quello “proletario” dalla schiavitù economica ed incolpano i liberali di volere una libertà puramente “formale” o “giuridica”, e di ignorare la libertà sostanziale, che sarebbe quella “economica”. Se ben si guarda, la dissomiglianza tra gli uni e gli altri riguarda non già il principio della libertà ma quello della “uguaglianza”, che è tutto diverso e deve essere discusso per se stesso. Messi alle strette, gli uomini liberali e quelli socialisti vogliono medesimamente che l’uomo sia libero di pensare, di parlare, di credere senza alcuna limitazione, sono parimenti persuasi che la verità si conquista discutendola e negandola, sono convinti che solo la maggioranza ha diritto di passare dalla discussione alla deliberazione, e di passare a ciò provvisoriamente sino a quando la maggioranza, seguitando a discutere sia mutata, venendo in opinione diversa od opposta. Liberali e socialisti non possono, per principio, distinguere fra uomini aristocratici, borghesi o proletari, cristiani od ebrei o mussulmani, bianchi o gialli o negri. Tutti sono uomini ed hanno diritto a tutta quella libertà di opinare e di operare, la quale non neghi l’ugual diritto di tutti gli altri uomini. I contrasti paiono sorgere quando dal principio di libertà si passa a discutere il principio dell’uguaglianza. Non già che alcuno dichiari mai di essere fautore di una uguaglianza assoluta od aritmetica; non già che esista alcun liberale o socialista pronto a sostenere la tesi che tutti debbano partecipare in quantità identica ai beni della terra. Liberali e socialisti sono concordi nel riconoscere che l’uguaglianza piena del possesso o del godimento è assurda, data la diversità sempre esistita in passato e, fino ad esperienza contraria, destinata a durare in avvenire, fra le attitudini intellettuali, morali, fisiche degli uomini. Non è immaginabile che gli uomini laboriosi o poltroni, risparmiatori o dissipatori, intelligenti o mediocri o sciocchi, muscolosi o fiacchi possano godere di uguale ricchezza o reddito. Astrazione fatta dalla impossibilità pratica di misurare ricchezze, godimenti, felicità e dolori, l’uguaglianza, anche se per miracolo potesse essere instaurata per un attimo, potrebbe durare solo colla forza. Se un capo od un collegio sapientissimo, onniveggente, giusto non usasse all’uopo la forza, l’uguaglianza verrebbe immediatamente meno, non potendosi supporre che l’uomo intelligente, forte, previdente non si giovi delle sue qualità per innalzarsi al di sopra della condizione di coloro che hanno tardo l’intelletto o sono minorati fisicamente o non vedono al di là dell’attimo fuggente. Ma alla forza, anche se la somma del potere spettasse al capo sapiente, puro, incorruttibile, giusto, perfetto, repugnano ugualmente, in nome della libertà, liberali e socialisti, di nulla tanto gelosi come del rispetto alla persona umana.

Se alla “libertà” non si può aggiungere aggettivo veruno, alla “uguaglianza” fa d’uopo forzatamente aggiungere un chiarimento non agevole ad enunciare, il quale giovi ad escludere trattarsi di uguaglianza aritmetica e perciò tirannica.

La formula meno impropria è forse quella della uguaglianza “nei punti di partenza”. Ogni uomo deve essere inizialmente posto nella medesima situazione di ogni altro uomo; sicché egli possa riuscire a conquistare quel posto morale, economico, politico che è proprio delle sue attitudini di intelletto, di carattere morale, di vigore lavorativo, di coraggio, di perseveranza. L’uguaglianza, così intesa, ha innanzitutto un contenuto giuridico universale: nessun uomo deve essere posto dalla legge in condizioni di inferiorità rispetto ad ogni altro uomo, per motivi di sesso, di colore, di razza, di religione, di opinioni politiche, di nascita, di appartenenza ad un determinato ceto o classe sociale. Sull’uguaglianza giuridica non nascono e non possono nascere divergenze fra socialisti e liberali.

Su taluna maniera di porre rimedio alla disuguaglianza nei punti di partenza vi ha sostanziale concordia fra liberali e socialisti ed è per quel che riguarda l’apprestamento – a spese di tutti, e cioè dei contribuenti, ossia, formalmente, dello stato, degli enti pubblici e delle varie specie di opere di bene, coattive o volontarie – di mezzi di studio, di tirocinio e di educazione aperti a tutti. Scuole gratuite elementari, refezioni scolastiche, opere post scolastiche, borse di studio per i meritevoli nelle scuole medie ed universitarie con pagamento di tasse, sono patrimonio comune alle due tendenze politiche.

Ad uguale sentenza si giunge rispetto a quei provvedimenti intesi ad instaurare parità di punti di partenza tra uomo e uomo con le varie specie di assicurazioni sociali: contro la vecchiaia e la invalidità, contro le malattie, a favore della maternità, contro la disoccupazione e simiglianti. Anche qui, le divergenze non sono di principio, ma di limiti e di applicazione; né esse dovrebbero dar luogo a dispute insanabili attenendo alla eliminazione delle cause di spreco e di degenerazione delle provvidenze medesime, eliminazione desiderabile a vantaggio massimamente dei beneficati.

Per altro motivo si può essere dubbiosi rispetto all’assicurazione contro la disoccupazione….

Il vero problema sta nella esistenza di un punto critico, sorpassato il quale il sussidio di disoccupazione diventa socialmente dannoso. Nessuno potendo essere costretto ad accettare un lavoro, il quale sia disadatto alle attitudini intellettuali e fisiche del lavoratore o notabilmente degradi la situazione sociale e morale sua, importa che l’ammontare del sussidio sia determinato in maniera siffatta da creare un incentivo nel disoccupato a cercare e ad accettare il lavoro che eventualmente può essere a lui adatto. Se il sussidio si avvicina troppo al salario normale suo, perché egli dovrebbe essere diligente nel cercar lavoro e non troppo sottile nell’accettarlo? La divergenza tra le due parti è di temperamento; i liberali più attenti ai meriti ed agli sforzi della persona sono propensi a tenersi stretti nell’ammontare dei sussidi, laddove i socialisti, meglio misericordiosi verso gli incolpevoli, sono pronti a maggiori larghezze. Né il contrasto è dannoso, perché giova alla scoperta del punto critico, per il quale si opera il trapasso dal bene al male sociale.

L’analisi critica delle somiglianze e dei contrasti fra liberalismo e socialismo o, meglio, fra uomini liberali e uomini socialisti non può trascurare quelle specie di intervento dello stato nell’economia, che hanno preso nome di “dirigismo” o “statizzazione” o “nazionalizzazione”.

Non fa d’uopo confutare ancora una volta la grossolana fola che il liberalismo sia sinonimo di assenza dello stato o di assoluto lasciar fare e lasciar passare e che il socialismo sia la stessa cosa dello stato proprietario e gestore dei mezzi di produzione. Che i liberali siano fautori dello stato assente, che Adamo Smith sia il campione dell’assoluto lasciar fare e lasciar passare sono bugie che nessuno studioso ricorda; ma, per essere grosse, sono ripetute dalla più parte dei politici, abituati a dire “superata” la idea liberale; ma non hanno mai letto nessuno dei libri sacri del liberalismo e non sanno in che esso consista. Che i socialisti vogliano dare allo stato la gestione compiuta dei mezzi di produzione è dettame talvolta scritto nei manifesti elettorali, ma ripugnante ai socialisti che aborrano dalla tirannia dello stato onnipotente, e tali sono tutti i socialisti.

Liberali e socialisti sono dunque concordi nell’affermare che lo stato deve intervenire, come in tante altre cose, nelle faccende economiche; né può lasciare gli uomini liberi di agire a loro posta, fuor di un qualunque regolamento statale.

Non giova seguitare l’elenco, il quale non è limitato, come qui si fece, ai problemi economici e sociali; poiché su ogni problema morale, religioso, educativo, familiare, nazionale od internazionale, i due principi, della libertà della persona e della cooperazione degli uomini viventi in società, costringono l’uomo, che è uno solo, ad essere a volta a volta e nel tempo stesso, liberale e socialista; o più l’uno o più l’altro, a seconda del prevalere dell’uno o dell’altro principio.

La stabilità politica e sociale è minacciata solo quando venga meno il limite; e l’uomo liberale rinneghi stoltamente la necessità della collaborazione degli uomini viventi in società o l’uomo socialista neghi il diritto dell’uomo a vivere diversamente dal modo che egli abbia dichiarato obbligatorio.

Sembra che, nell’Italia d’oggi, il punto critico sia stato superato, in virtù di una combinazione, non nuova, e di cui non mancano esempi nella nostra storia contemporanea, di dirigismi, demagogico da un lato e plutocratico dall’altro. L’Italia economica resiste e tuttora avanza, in virtù quasi esclusivamente della meravigliosa attitudine ad arrangiarsi di cui gli italiani sono provveduti.

Anche quando il punto critico sia stato toccato, la lotta tra gli uomini devoti ai due ideali liberale e socialistico non è destinata ad attenuarsi, ed è lotta necessaria e feconda; ché, se fa d’uopo che l’individuo sia libero di raggiungere massimi di elevazione individuale, è necessario anche che la gara si compia non coll’abbassare tutti al livello comune, ma coll’elevare i minori a livelli sempre più alti; ché se è vantaggiosa l’elevazione dei singoli, questa non può giovare, se non si apprestino quei beni comuni di istruzione, educazione e sicurezza sociale senza i quali l’elevazione dei singoli avrebbe luogo con disuguaglianza eccessiva a vantaggio dei più forti. L’optimum non si raggiunge nella pace forzata della tirannia totalitaria; si tocca nella lotta continua fra i due ideali, nessuno dei quali può essere sopraffatto senza danno comune. Solo nella lotta, solo in un perenne tentare e sperimentare, solo attraverso a vittorie ed insuccessi, una società, una nazione prospera. Quando la lotta ha fine si ha la morte sociale e gli uomini viventi hanno perduto la ragione medesima del vivere.



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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