In tutte le discussioni aperte da Calenda e Renzi sul nuovo partito del Terzo Polo compare sempre la parola Liberale.
Anche il nome più gettonato per il nuovo partito “liberaldemocratico”
la contiene.
Molti di noi iscritti e attivisti di Azione e Italia Viva
provengono da una delle molte anime del Socialismo democratico.
Qui si parla di Socialismo di fine anni cinquanta, non di Partito Democratico che è la somma di Post-Comunisti e di Cattolici Progressisti.
Proprio questi Cattolici, dopo la vittoria a valanga di Elly Schlein, come dice Giorgio Merlo, sono destinati a ricoprire lo stesso ruolo che ebbero negli anni ‘70 i “cattolici indipendenti di sinistra” all’interno del glorioso Partito Comunista Italiano.
Frugando nell’archivio della Fondazione Luigi Einaudi, nel
cui Consiglio è entrato da poco l’ex Senatore lucchese Marcucci, abbiamo
trovato un interessante discorso su Liberale e Socialista.
Think Tank Reformists propone oggi la rilettura parziale di
alcuni brani di una lunghissima riflessione del 1957 di Luigi Einaudi “..Sulle
somiglianze e sulla dissomiglianza fra liberalismo e socialismo”
Tutto l’articolo si può leggere integralmente su https://www.luigieinaudi.it/doc/discorso-elementare-sulle-somiglianze-e-sulle-dissomiglianze-fra-liberalismo-e-socialismo/?sterm=liberale
Di seguito riportiamo solo alcuni brani molto attuali per una serena discussione mentre ci accingiamo a costruire da Socialisti un nuovo partito Liberale.
Alcuni spunti del “Discorso elementare sulle somiglianze e sulle dissomiglianze fra liberalismo e socialismo” di Luigi Einaudi.
…non pare
inopportuno osservare che unificazioni ed intese e patti e colloqui debbono
fondarsi su un’idea. Se un’idea, che sia politica e cioè definisca
un’azione, non esiste, di che cosa possono discorrere i capi dei partiti per
giungere ad un accordo od alla constatazione del dissenso?
…Chi
distinguerà però gli uni dagli altri? Come impedire che i furbi cattivi ed
ignoranti non prevalgano sui buoni e sui sapienti? Altra via non c’è fuor del
contar le teste, che è metodo, per sperienze anche recenti, migliore del farle
rompere dai più forti decisi a conquistare o tenere il potere. Il mito è
valido, nonostante la dimostrazione data da Ostrogorscki, da Mosca, da Pareto,
da Michels, da Schumpeter che non avendo gli elettori libertà di scelta – la
libertà di scelta è sinonimo di dispersione di voti e quindi di confusione – se
non fra i candidati, ed essendo i candidati proposti necessariamente dai
capi di gruppi organizzati, detti partiti, la scelta è fatta non dagli
elettori, ma dai fabbricanti auto-selezionati di gruppi politici. Il che è
vero, ma, di nuovo, quale metodo migliore se non il diritto di tutti i volenterosi
di farsi capi-gruppo e di scegliere così di fatto gli eletti? Solo
l’educazione politica giova a consentire una scelta non del tutto infelice tra
i candidati….
A coloro i
quali “sanno”, i quali conoscono la “verità” e credono di avere il dovere di
attuarla, noi dobbiamo opporre il principio che noi conosciamo la verità
solo se e finché abbiamo la possibilità di negarla; che il solo criterio della
verità politica, come di ogni altra verità, è il diritto illimitato di
discutere le regole accettate nel costume o nelle costituzioni scritte, di
criticare gli ordinamenti esistenti e gli uomini al potere, di adoperarsi per
mutare gli uni e per cacciare gli altri di seggio, il diritto delle minoranze
di trasformarsi, in virtù di persuasione, in maggioranze. Nella diuturna
battaglia per la conquista del potere politico, i combattenti hanno d’uopo
di fare appello a parole d’ordine, a grida di battaglia. Che sono, per lo più,
quelle parole prive di contenuto, delle quali si disse sopra; e sono parole che
variano di tempo in tempo, di luogo in luogo, e sono ripetute, da uomini di
diverse parti politiche, identiche spesso nel suono verbale e deferentissime
nel sottinteso significato sostanziale.
Se ben si
guarda, esiste tuttavia, attraverso il velame delle parole apparenti, un filo
conduttore, il quale consente, a chi voglia, di vedere e tentare di orientarsi.
Quel filo conduttore è il contrasto, che ad ogni volta vien fuori tra i due
principi del “liberalismo” e del “socialismo “. In tutti i partiti, cattolici o
democristiani, monarchici, repubblicani, conservatori, progressisti, liberali,
radicali, socialisti, laburisti, democratici, qualunque sia il nome assunto a
simbolo del partito, due sono i principi che, discutendo di problemi politici,
economici, sociali, materiali o spirituali, si contrappongono: l’idea della
libertà della persona umana e l’idea della cooperazione o solidarietà o
dipendenza reciproca degli uomini viventi in società. Gli uomini, tutti gli
uomini, sentono il valore dei due principi ed ora prevale in essi l’uno ed ora
l’altro; e se i più sono legati alle tradizioni familiari, all’opinione del
proprio ceto sociale, alle amicizie ed alla iniziata consuetudine di voto,
esiste sempre in ogni luogo e tempo, là dove le opinioni ed i voti sono liberi,
ed una maggioranza fino al 60 % dei votanti è reputata l’optimum della sanità e
della stabilità politica, esiste sempre un margine di uomini fluttuanti i quali
bastano a dare la vittoria, bastano a trasformare la minoranza di ieri in
maggioranza di oggi.
Negli
stati stabili le somiglianze tra le due grandi correnti d’opinione sopravanzano
di gran lunga le dissomiglianze; ed oggi in Inghilterra, negli Stati Uniti, nei paesi
scandinavi, nella Svizzera, nel Belgio e nell’Olanda, le dissomiglianze fra
i due partiti o fra i due gruppi di partiti sono minime; e si riducono a
piccole sfumature, rispondenti, più che a differenze sostanziali, a minori
modalità di attuazione di principi universalmente accettati.
Non presumo
di saper cogliere la più parte delle somiglianze e delle dissomiglianze fra
l’idea liberale e l’idea socialistica. Vorrei solo esaminare quali siano le
somiglianze e le dissomiglianze tra gli uomini i quali nel nostro paese
tendono verso il liberalismo e quelli i quali guardano al socialismo.
Liberali
e socialisti sono concordi nel sentire vivamente il rispetto della persona
umana; che direi, più semplicemente, il rispetto dell’uomo. I liberali non aggiungono nulla
alla parola “uomo”, e sono accusati dai socialisti di essere difensori di una
particolare specie di uomo, che sarebbe l’uomo “borghese”. I socialisti
vagamente aspirano a liberare un’altra sottospecie di uomo, quello “proletario”
dalla schiavitù economica ed incolpano i liberali di volere una libertà
puramente “formale” o “giuridica”, e di ignorare la libertà sostanziale, che
sarebbe quella “economica”. Se ben si guarda, la dissomiglianza tra gli uni
e gli altri riguarda non già il principio della libertà ma quello della
“uguaglianza”, che è tutto diverso e deve essere discusso per se stesso.
Messi alle strette, gli uomini liberali e quelli socialisti vogliono
medesimamente che l’uomo sia libero di pensare, di parlare, di credere senza
alcuna limitazione, sono parimenti persuasi che la verità si conquista
discutendola e negandola, sono convinti che solo la maggioranza ha diritto di
passare dalla discussione alla deliberazione, e di passare a ciò
provvisoriamente sino a quando la maggioranza, seguitando a discutere sia
mutata, venendo in opinione diversa od opposta. Liberali e socialisti non
possono, per principio, distinguere fra uomini aristocratici, borghesi o
proletari, cristiani od ebrei o mussulmani, bianchi o gialli o negri. Tutti
sono uomini ed hanno diritto a tutta quella libertà di opinare e di operare, la
quale non neghi l’ugual diritto di tutti gli altri uomini. I contrasti
paiono sorgere quando dal principio di libertà si passa a discutere il
principio dell’uguaglianza. Non già che alcuno dichiari mai di essere fautore
di una uguaglianza assoluta od aritmetica; non già che esista alcun liberale o
socialista pronto a sostenere la tesi che tutti debbano partecipare in quantità
identica ai beni della terra. Liberali e socialisti sono concordi nel
riconoscere che l’uguaglianza piena del possesso o del godimento è assurda,
data la diversità sempre esistita in passato e, fino ad esperienza contraria,
destinata a durare in avvenire, fra le attitudini intellettuali, morali,
fisiche degli uomini. Non è immaginabile che gli uomini laboriosi o
poltroni, risparmiatori o dissipatori, intelligenti o mediocri o sciocchi,
muscolosi o fiacchi possano godere di uguale ricchezza o reddito. Astrazione
fatta dalla impossibilità pratica di misurare ricchezze, godimenti, felicità e
dolori, l’uguaglianza, anche se per miracolo potesse essere instaurata per un
attimo, potrebbe durare solo colla forza. Se un capo od un collegio
sapientissimo, onniveggente, giusto non usasse all’uopo la forza, l’uguaglianza
verrebbe immediatamente meno, non potendosi supporre che l’uomo intelligente,
forte, previdente non si giovi delle sue qualità per innalzarsi al di sopra
della condizione di coloro che hanno tardo l’intelletto o sono minorati
fisicamente o non vedono al di là dell’attimo fuggente. Ma alla forza, anche se
la somma del potere spettasse al capo sapiente, puro, incorruttibile, giusto,
perfetto, repugnano ugualmente, in nome della libertà, liberali e socialisti,
di nulla tanto gelosi come del rispetto alla persona umana.
Se alla
“libertà” non si può aggiungere aggettivo veruno, alla “uguaglianza” fa d’uopo
forzatamente aggiungere un chiarimento non agevole ad enunciare, il quale giovi ad
escludere trattarsi di uguaglianza aritmetica e perciò tirannica.
La
formula meno impropria è forse quella della uguaglianza “nei punti di
partenza”. Ogni uomo deve essere inizialmente posto nella medesima situazione
di ogni altro uomo; sicché egli possa riuscire a conquistare quel posto morale,
economico, politico che è proprio delle sue attitudini di intelletto, di
carattere morale, di vigore lavorativo, di coraggio, di perseveranza. L’uguaglianza, così intesa, ha
innanzitutto un contenuto giuridico universale: nessun uomo deve essere posto
dalla legge in condizioni di inferiorità rispetto ad ogni altro uomo, per
motivi di sesso, di colore, di razza, di religione, di opinioni politiche, di
nascita, di appartenenza ad un determinato ceto o classe sociale.
Sull’uguaglianza giuridica non nascono e non possono nascere divergenze fra
socialisti e liberali.
Su taluna
maniera di porre rimedio alla disuguaglianza nei punti di partenza vi ha
sostanziale concordia fra liberali e socialisti ed è per quel che riguarda
l’apprestamento – a spese di tutti, e cioè dei contribuenti, ossia,
formalmente, dello stato, degli enti pubblici e delle varie specie di opere di
bene, coattive o volontarie – di mezzi di studio, di tirocinio e di educazione
aperti a tutti. Scuole gratuite elementari, refezioni scolastiche, opere
post scolastiche, borse di studio per i meritevoli nelle scuole medie ed
universitarie con pagamento di tasse, sono patrimonio comune alle due tendenze
politiche.
Ad uguale
sentenza si giunge rispetto a quei provvedimenti intesi ad instaurare parità di
punti di partenza tra uomo e uomo con le varie specie di assicurazioni sociali:
contro la vecchiaia e la invalidità, contro le malattie, a favore della maternità,
contro la disoccupazione e simiglianti. Anche qui, le divergenze non sono di
principio, ma di limiti e di applicazione; né esse dovrebbero dar luogo a
dispute insanabili attenendo alla eliminazione delle cause di spreco e di
degenerazione delle provvidenze medesime, eliminazione desiderabile a vantaggio
massimamente dei beneficati.
Per altro
motivo si può essere dubbiosi rispetto all’assicurazione contro la
disoccupazione….
Il vero
problema sta nella esistenza di un punto critico, sorpassato il quale il sussidio
di disoccupazione diventa socialmente dannoso. Nessuno potendo essere costretto
ad accettare un lavoro, il quale sia disadatto alle attitudini intellettuali e
fisiche del lavoratore o notabilmente degradi la situazione sociale e morale
sua, importa che l’ammontare del sussidio sia determinato in maniera
siffatta da creare un incentivo nel disoccupato a cercare e ad accettare il
lavoro che eventualmente può essere a lui adatto. Se il sussidio si avvicina
troppo al salario normale suo, perché egli dovrebbe essere diligente nel cercar
lavoro e non troppo sottile nell’accettarlo? La divergenza tra le due parti
è di temperamento; i liberali più attenti ai meriti ed agli sforzi della
persona sono propensi a tenersi stretti nell’ammontare dei sussidi, laddove i
socialisti, meglio misericordiosi verso gli incolpevoli, sono pronti a maggiori
larghezze. Né il contrasto è dannoso, perché giova alla scoperta del punto
critico, per il quale si opera il trapasso dal bene al male sociale.
L’analisi
critica delle somiglianze e dei contrasti fra liberalismo e socialismo o,
meglio, fra uomini liberali e uomini socialisti non può trascurare quelle
specie di intervento dello stato nell’economia, che hanno preso nome di
“dirigismo” o “statizzazione” o “nazionalizzazione”.
Non fa
d’uopo confutare ancora una volta la grossolana fola che il liberalismo sia
sinonimo di assenza dello stato o di assoluto lasciar fare e lasciar passare e
che il socialismo sia la stessa cosa dello stato proprietario e gestore dei
mezzi di produzione. Che
i liberali siano fautori dello stato assente, che Adamo Smith sia il campione
dell’assoluto lasciar fare e lasciar passare sono bugie che nessuno studioso
ricorda; ma, per essere grosse, sono ripetute dalla più parte dei politici,
abituati a dire “superata” la idea liberale; ma non hanno mai letto nessuno dei
libri sacri del liberalismo e non sanno in che esso consista. Che i socialisti
vogliano dare allo stato la gestione compiuta dei mezzi di produzione è dettame
talvolta scritto nei manifesti elettorali, ma ripugnante ai socialisti che
aborrano dalla tirannia dello stato onnipotente, e tali sono tutti i
socialisti.
Liberali
e socialisti sono dunque concordi nell’affermare che lo stato deve intervenire,
come in tante altre cose, nelle faccende economiche; né può lasciare gli uomini liberi
di agire a loro posta, fuor di un qualunque regolamento statale.
Non giova
seguitare l’elenco, il quale non è limitato, come qui si fece, ai problemi
economici e sociali; poiché su ogni problema morale, religioso, educativo,
familiare, nazionale od internazionale, i due principi, della libertà della
persona e della cooperazione degli uomini viventi in società, costringono
l’uomo, che è uno solo, ad essere a volta a volta e nel tempo stesso, liberale
e socialista; o più l’uno o più l’altro, a seconda del prevalere dell’uno o
dell’altro principio.
La stabilità
politica e sociale è minacciata solo quando venga meno il limite; e l’uomo
liberale rinneghi stoltamente la necessità della collaborazione degli uomini
viventi in società o l’uomo socialista neghi il diritto dell’uomo a vivere
diversamente dal modo che egli abbia dichiarato obbligatorio.
Sembra che,
nell’Italia d’oggi, il punto critico sia stato superato, in virtù di una
combinazione, non nuova, e di cui non mancano esempi nella nostra storia contemporanea,
di dirigismi, demagogico da un lato e plutocratico dall’altro. L’Italia
economica resiste e tuttora avanza, in virtù quasi esclusivamente della
meravigliosa attitudine ad arrangiarsi di cui gli italiani sono provveduti.
Anche quando
il punto critico sia stato toccato, la lotta tra gli uomini devoti ai due
ideali liberale e socialistico non è destinata ad attenuarsi, ed è lotta
necessaria e feconda; ché, se fa d’uopo che l’individuo sia libero di
raggiungere massimi di elevazione individuale, è necessario anche che la gara
si compia non coll’abbassare tutti al livello comune, ma coll’elevare i minori
a livelli sempre più alti; ché se è vantaggiosa l’elevazione dei singoli,
questa non può giovare, se non si apprestino quei beni comuni di istruzione,
educazione e sicurezza sociale senza i quali l’elevazione dei singoli avrebbe
luogo con disuguaglianza eccessiva a vantaggio dei più forti. L’optimum non
si raggiunge nella pace forzata della tirannia totalitaria; si tocca nella
lotta continua fra i due ideali, nessuno dei quali può essere sopraffatto senza
danno comune. Solo nella lotta, solo in un perenne tentare e sperimentare, solo
attraverso a vittorie ed insuccessi, una società, una nazione prospera. Quando
la lotta ha fine si ha la morte sociale e gli uomini viventi hanno perduto la
ragione medesima del vivere.
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