I recenti articoli pubblicati da questo sito sul tema della
crisi della democrazia e della necessità di trovare un'alternativa al
bipopulismo, hanno suscitato interesse e stimolato polemiche. Non può ovviamente che
farmi piacere, visto che suscitare dibattito e riflessione è l'unico scopo di
questa iniziativa.
Ebbene, qualche sera fa, nel corso di una ottima cena, ho
avuto un interessante scambio di vedute con un amico fornito di una non comune
esperienza politica, sul tema della Legge Elettorale e della stabilità dei
governi.
Discussione che ha preso le mosse dai miei recenti articoli,
primo fra questi "Obiettivo Democrazia governante: qualità della politica
e riforme istituzionali".
Il mio interlocutore partiva dal presupposto che la ricerca
della stabilità dei governi è l'obiettivo primario da perseguire attraverso le
necessarie riforme istituzionali. Obiettivo sicuramente importante, sia in ragione
della cronica instabilità dei nostri governi (e non solo quelli della stagione
repubblicana), sia in ragione della complessità del tempo che viviamo, che
richiede politiche di ampio respiro che solo governi stabili possono aspirare a
mettere in campo.
Ma da solo il concetto di stabilità non basta: occorre
capire a quali obiettivi politici tale presupposto è finalizzato. In primo
luogo la stabilità occorre coniugarla con l'aggettivo "democratica": i
governi più stabili sono quelli dittatoriali e/o le autocrazie: naturalmente il
mio interlocutore non auspicava affatto tali sbocchi.
Poi, fattore non certo secondario, la stabilità va altresì
coniugata con la sussistenza di un progetto politico chiaro di cui la stabilità
è il mezzo e non il fine.
Ecco perché utilizzo il termine "Democrazia
Governante": condizione di cui la stabilità rappresenta un fattore
sicuramente indispensabile, anche se non sufficiente.
Comunque, anche in risposta a certe posizioni anche presenti
nel mondo accademico, che hanno urlato all'allarme democratico ogni qualvolta
si è cercato di intervenire per la ricerca di una maggiore stabilità dei
governi, rispondo con Piero Calamandrei che nel 1946 ebbe a dire: «Le dittature
sorgono non dai governi che governano e che durano, ma dall'impossibilità
di governare dei governi democratici».
Quindi la più convinta adesione alla ricerca della stabilità
dei governi, ma unitamente alla consapevolezza della necessità di affiancarla a
progetti politici chiari, non demagogici, pertanto non inquinati dalle tossine
ammorbanti del populismo che oggi si propone come il più insidioso pericolo per
la tenuta delle istituzioni di democrazia rappresentativa.
Dalle nostre democrazie occidentali, stanno venendo
preoccupanti segnali di crisi, che riguardano anche democrazie consolidate
quali quella statunitense
o inglese. Sino a qualche anno fa si parlava di esportare le
istituzioni di democrazia liberale; ora mi pare che il nostro problema sia
quello di riuscire a conservarle, non solo da attacchi esterni ma, a mio avviso
ancor peggio, dal tarlo delle insidie interne.
Il tema della crisi della democrazia e dei fattori che la
determinano assume, a mio modo di vedere, priorità su qualsiasi altro. Una
condizione, a mio avviso, molto diversa da quella - adesempio - degli anni
'90.
La lettura del contesto risulta quindi fondamentale: lo dico
prendendo a prestito John Stuart Mill "le regole non sono né dovrebbero
essere di obbligo eterno, ma variano e devono variare più o meno da un'epoca
all'altra, man mano che le coscienze delle nazioni diventano più illuminate e
cambiano le esigenze della società politica».
Ecco perché negli anni '90 ho sostenuto il sistema
maggioritario mentre ora sono paladino del proporzionale.
Il tema della crisi della democrazia è ovviamente molto
complesso e non può essere ricompreso nello spazio di queste riflessioni:
Per decenni, il connubio tra democrazia liberale e
capitalismo ha garantito benessere e prosperità. Oggi, l'assetto politico ed
economico dell'Occidente è minato da diseguaglianze, populismi e politiche
identitarie. Invecchiamento e denatalità, una bassa crescita economica e flussi
finanziari e migratori mal ponderati alimentano il disagio sociale. Contesti
geopolitici, tecnologici ed energetici in rivoluzione fanno il resto, erodendo
le democrazie dall'interno.
E sempre dall'interno le democrazie vengono minate dalla
disaffezione al voto, dalla perdita di rappresentatività degli organi della
rappresentanza popolare a partire dal Parlamento, dalla crisi dei partiti, dalla
perdita di credibilità della politica che sempre più viene percepita (con molte
ragioni) come occasione di busines, dalla sconnessione fra rappresentati e
rappresentanti, da una classe politica solo protesa alla ricerca del consenso
immediato quindi incapace di far sognare un futuro, insomma da quei sintomi
che danno ragione ad Emilio Gentile che afferma che "la democrazia
rappresentativa si sta trasformando in democrazia recitativa", quindi in una democrazia
finta.
«Si può eliminare facilmente una vera dittatura, ma è
difficilissimo eliminare una fìnta democrazia» - Efisio Melis (1919).
Poi l'influenza dei social ed in genere del circo mediatico,
campagne elettorali inquinate da roboanti ed improbabili promesse,
l'appiattimento sempre crescente sul presente a scapito della progettazione di un futuro, il
disprezzo del merito e della competenza in una fase di estrema difficoltà come
l'attuale. Insomma una delicatissima sovrapposizione di fattori favorevoli per
premiare la vacuità dei demagoghi anziché la serietà di coloro che si sforzano
di dare risposte alle inquietudini del presente con la necessità di pensare
alle prossime generazioni.
Contesti ben fotografati nei risultati delle elezioni
tenutesi ultimamente in vari paesi europei e non solo, che hanno visto l'affermazione
di movimenti populisti, ancorché ammantati da vari colori, a volte rossi,
a volte bruni, o altrimenti variopinti.
Un imbarbarimento e radicalizzazione dello scontro politico,
che oggi costituisce il campanello d'allarme più eloquente del cattivo stato di
salute delle istituzioni della democrazia rappresentativa un po' ovunque
nel mondo occidentale, che l'ha creata e sviluppata.
Dando per buono il fattore della radicalizzazione dello
scontro politico, ne consegue che il sistema maggioritario non potrà che
premiare le posizioni più radicali. I sistemi maggioritari funzionano infatti quando
le forze centripede rappresentano un fondamentale fattore di equilibrio:
fattore che viene meno allorché a prevalere sono invece le componenti estreme.
Il tema vero mi pare che sia quindi quello di mettere ai
margini le forze populiste, quale che sia il loro colore, in favore di alleanze
democratiche e di alternativa ai populismi, che solo un sistema elettorale
di impianto proporzionale (ovviamente con i necessari correttivi per evitare
eccessive frammentazioni), può favorire.
Ovviamente purché si sappia ridare dignità alle istituzioni
democratiche a partire dal Parlamento, il quale dovrà ritrovare la capacità di
dare senso e dignità alle necessarie mediazioni che, se condotte
seriamente, sono cosa ben diversa dagli inciuci e dalle conventicole.
Il focus torna quindi sul tema della qualità della politica,
da cui nessuna seria azione di rilancio della vita democratica può prescindere.
Affrontare seriamente un tema significa anzitutto comprenderlo e
definirne gli ambiti. L'antidoto alla cattiva qualità della politica può essere
soltanto la buona qualità della politica. Le riforme istituzionali servono, ma
guai ad affidarsi ad esse con un approccio "palingenetico": le riforme
istituzionali possono certo servire, ma solo in presenza dei necessari presupposti
politico-culturali.
Il discorso ci riporta ad un interrogativo ineludibile: può
una democrazia rappresentativa funzionare in assenza di partiti organizzati?
Quale peso ha, nella attuale crisi democratica, il dissolvimento dei
partiti così come concepiti nel periodo migliore del funzionamento delle
istituzioni di democrazia rappresentativa?
Ed ancora: come possiamo coniugare la democrazia quale
strumento di governo della complessità contemporanea con la necessità di
accrescere il livello di consapevolezza del corpo elettorale?
ed ora alcune considerazioni sul versante delle riforme
istituzionali.
Anzitutto un paradosso. Mentre a livello di narrazione
pubblica sembrerebbe condivisa l'idea del rafforzamento dei poteri del governo
centrale, gli esiti dei vari referendum confermativi di riforme costituzionali
sono andati nella direzione opposta. E' questo il caso del referendum del 2001
sulla riforma del Titolo quinto, varata dal centro-sinistra; è il caso del
referendum sul taglio dei parlamentari del 2020, frutto della temperie
antipolitica.
Anche l'attuale maggioranza sembra voler proporre una
propria riforma di impianto presidenzialista: strada su cui già ho avuto modo
di esprimere le mie perplessità, non foss'altro per i segnali preoccupanti
provenienti da paesi con alle spalle solidissime tradizioni
presidenzialistiche.
Indipendentemente dal merito, sarà ben difficile che
l'eventuale riforma possa superare lo scoglio del referendum confermativo,
inevitabile visti i numeri parlamentari.
Quindi la proposta sembra più uno spot elettorale che una
concreta scelta di modernizzazione del nostro assetto istituzionale, di cui si
avverte peraltro la necessità.
La strada giusta, a mio modo di vedere, era quella della
riforma del Governo Renzi, incagliatasi nelle secche del referendum
confermativo del 2016. Per quella riforma mi sono a suo tempo speso senza risparmio;
sono ancora convinto che la bocciatura sia stata una iattura per il Paese.
In quel progetto di riforma i temi importanti c'erano tutti,
ovviamente con soluzioni possibili nella situazione data: Titolo V, superamento
del bicameralismo paritario, rafforzamento dei poteri del Presidente del
Consiglio ed altro ancora. C'era anche il combinato con una buona legge
elettorale, dico buona e, guarda caso, mai usata.
Penso che questi temi ancora costituiscano gli ancoraggi da
cui partire, ove si voglia seriamente proporre un progetto riformatore e non
uno slogan elettorale.
Ma non è necessario partire dalla Costituzione; alcune
strade utili, a partire da una nuova Legge Elettorale che consenta ai cittadini
di riappropriarsi del potere di scelta dei loro rappresentanti, sono possibili
con procedura ordinaria, quindi percorribile purché una maggioranza
parlamentare lo voglia.
Poi altri aggiustamenti regolamentari possibili e, fattore
fondamentale, prendere coscienza che vanno superate quelle condotte politiche
che più hanno contribuito a diffondere i germi dell'antipolitica.
Ma gli interrogativi - sicuramente i più inquietanti - sono
quelli attorno alla crisi ed al futuro della democrazia.
Le cause della crisi sono molteplici e complesse. Occorre
farne oggetto di un dibattito molto serio: promesse non mantenute?
Degenerazioni dovute al rapporto fra ricerca del consenso e nuovi media? Crisi dei partiti
quali strumenti di formazione, di selezione della classe dirigente e di
intermediazione fra società e strutture di governo? Perdita di credibilità della
politica e diffusione dell'antipolitica? Presenza di elementi affaristici nella
condotta politica di molti? Degenerazione "inevitabile" o frutto
dell'inerzia nella lettura dei segnali dei tempi? Incapacità di governare le
nuove sfide a cui la politica è chiamata?
Interrogativi complessi, a cui ovviamente non so dare
risposta, ma che costituiscono il più fertile terreno di confronto per la
lettura della contemporaneità.
Ma un interrogativo si erge su tutti gli altri. Quale futuro
per la democrazia?
e "Quale futuro per la democrazia" è il titolo di
un saggio di Alessandro Magnoli Bocchi recentemente pubblicato da Il Sole 24
Ore.
E' un saggio che si legge bene; termino queste mie
considerazioni con il consiglio di leggerlo.
Lucca, 17 ottobre
2023
Paolo Razzuoli