Think Tank Reformists pubblica un interessante articolo di Beppe Facchetti pubblicato da www.linchiesta.it il 17 marzo 2023 e replicato su fucinaidee.it
La sinistra massimalista si riaffaccia prepotentemente nel traballante PD con uno sterile vecchio dibattito sull'art.18 e il Jobs Act disconoscendo anche i chiari successi di queste scelte politiche. Un ritorno al passato, come se presente e futuro non esistessero. Un ottimo articolo che mette a nudo come il massimalismo di sinistra sia solo passato.
Incatenati al massimalismo - La sinistra alle prese con il suo passato non vede il futuro. di Beppe Facchetti
Se la sinistra politica si divide oggi in Italia in almeno
quattro frazioni, non ci si può certo stupire se la cultura corrispondente si
spacca a sua volta in tendenze diverse.
Ne è prova un recente confronto su Repubblica tra Aldo
Schiavone e Carlo Galli (stessa appartenenza culturale, due soluzioni opposte).
Lo conferma lo strepitoso esito elettorale delle Primarie del
Partito democratico, con due risultati contraddittori, ma paradossalmente
entrambi plausibili.
A meno di accontentarsi del nuovo in quanto nuovo (nuova
segretaria, nuovo genere al comando, nuovo linguaggio contro i cacicchi, nuovi
applausi dei cacicchi a sé stessi), un chiarimento sarebbe necessario.
La sconfitta, e l’occasione di elezioni ancora lontane,
offrono la possibilità di rigenerarsi e provare a battere una destra oggi
appagata dal suo transitorio successo e quindi disattenta a riflessioni
strategiche di cui pure, a sua volta, avrebbe urgente bisogno.
In attesa di tutto questo, il dibattito tra Carlo Galli e
Aldo Schiavone segnala una distanza pressoché totale sia nell’analisi che nelle
proposte.
Al di là di un rispettoso galateo formale nelle
argomentazioni, due intellettuali di area seguono percorsi culturali segnati da
discontinuità (Schiavone) e conservazione (Galli) ancor più inconciliabili,
alla luce della contestuale lettura di un piccolo libro di grande qualità
(“Sinistra! Un manifesto”, editore Feltrinelli) con cui Schiavone supera
violentemente tutte le categorie continuiste del pensiero di sinistra.
Aldo Schiavone esorta addirittura la sinistra ad accettare la
realtà e cioè la vittoria del capitalismo e la sconfitta finale del socialismo,
mentre Galli fa slalom tra riformismo e socialismo, costringendo il titolista
del suo saggio a una affermazione che sembra un po’ surreale: “Il riformismo
senza sinistra si chiama neo liberismo”. Come a dire che l’accettabilità del
neoliberismo (cosa sia davvero mai nessuno lo spiega, c’è solo sempre
un’allusione demoniaca) dipende da chi lo brandisce. Spiegandolo poi meglio, e
premesso che la parola socialdemocrazia continua a essere «impronunciabile», il
riformismo di cui si parla va inteso solo come la «fase transitoria» di un
percorso il cui «obiettivo resta il socialismo».
Sarebbe sempre meglio la rivoluzione, ma bisogna prendere
atto, (dolorosamente sembra necessario aggiungere), che quest’ultima deve
essere accantonata, ma solo «perché impraticabile».
Muovendo da queste premesse, è dunque comprensibile, ma forse
un po’ antistorico, che Galli citi il riformismo laburista di Tony Blair e la
socialdemocrazia di Gerhard Schroeder come prodromi della successiva deriva
neoliberista (ancora questo pensiero fisso).
Certo, si concede che esista un filone di riformismo
democratico borghese, ma lo si distingue bene da quello socialista, quasi ne fosse
una imperfetta imitazione.
I suoi meriti sono citati – Franklin Delano Roosevelt, stato
sociale, società del benessere ecc. -, ma il filone principale resta l’altro,
quello del riformismo «in mancanza di meglio» di cui parlava anche l’ex
responsabile economico del PD, Emanuele Felice: un male minore, sempre perché
la rivoluzione è «impraticabile».
Nessun dubbio sulla possibile contaminazione creatrice che
potrebbe scaturire dall’esame degli insuccessi del socialismo, non solo quello
reale, e da quello dei successi del capitalismo in termini di superamento della
lotta di classe e di crescita sociale complessiva.
Aldo Schiavone è invece su questo punto inesorabile: chiede
di abbandonare «come inservibile ogni idea di socialismo» (farlo sarebbe
addirittura un «ultimo gesto autenticamente marxista; un’applicazione rigorosa
e conclusiva di quel pensiero geniale») esortando a capire che «In termini
strettamente economici e sociali, il capitale ha vinto la sua battaglia…e
bisogna prendere atto con realismo di questo dato e saper chiamare le cose con
il loro nome, senza addolcimenti».
Il realismo consentirebbe tra l’altro di non inseguire
battaglie di retroguardia antiliberiste, concentrandosi magari meglio
sull’insostituibile ruolo che la sinistra dovrebbe avere nel combattere le
contraddizioni del capitalismo.
Uscendo però dallo schema che Carlo Galli ancora ripropone:
quello di riforme pensate per adattare l’economia ai cittadini e non i
cittadini all’economia (come se gli effetti negativi, talora catastrofici, del
dirigismo nelle sue varie forme non avessero insegnato niente).
Il merito di Aldo Schiavone è di evitare le categorie
astratte e prendere atto concreto della realtà, anche se intellettualmente
scomoda.
E realtà significa capire le conseguenze della vera
rivoluzione del nostro tempo: quella della tecnica e del capitale, con
implicazioni dirette sul lavoro.
La sinistra non può non sapere che questi tre fattori hanno
cambiato totalmente il quadro di riferimento. Non c’è più il conflitto tra
operai e capitale, non ci sono più gli operai.
E va anche apprezzato il fatto che Schiavone si pone in una
prospettiva universalistica di cittadinanza dinamicamente alternativo alle
“nazioni” meloniane.
Quella da risolvere, sulle rovine di un’epoca chiusa, è se
mai la diseguaglianza, che va affrontata a sua volta non con le vecchie
categorie “socialiste”.
Magari Galli chiamerà liberiste queste priorità ma ci sembra
innegabile che si debba finalmente pensare ad «un’eguaglianza che possa
coesistere con la valorizzazione delle diversità individuali». Queste ultime
devono essere le protagoniste di un diverso rapporto con beni comuni
essenziali: salute, ambiente, informazione, democrazia.
Chi pensa pertanto a programmi di governo basati sulla
restaurazione di simboli degli anni 70 del secolo scorso, come l’articolo 18, o
fa del piccolo cabotaggio sul Jobs Act, forse non ha nozione reale
dell’economia, della finanza, del lavoro (soprattutto) nella nostra epoca.
E ritarda, rallenta ciò di cui abbiamo più bisogno, una nuova
disponibilità mentale non al revisionismo ma al riformismo delle scelte
difficili.
da Linkiesta.it del 17 marzo 2023
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