Per non dimenticare i drammatici fatti del nostro confine nord-orientale TTR, dalla Fucina delle Idee, propone:
· Un saggio di Raoul Pupo, storico
italiano, professore di Storia contemporanea all'Università di Trieste, tra i
massimi conoscitori dell'Esodo giuliano-dalmata e dei massacri delle foibe.
· Alcune considerazioni politiche in un articolo del Prof. Paolo Razzuoli
L'esodo dei giuliano-dalmati, di Raoul Pupo.
Per esodo giuliano-dalmata s’intende l’abbandono forzato, da parte della quasi totalità del gruppo nazionale italiano, del suo territorio d’insediamento storico in Istria, a Fiume ed a Zara, passate, dopo la Seconda guerra mondiale, dalla sovranità italiana a quella jugoslava.
Il termine esodo, scelto all’epoca dei fatti dai profughi
stessi per sottolineare la dimensione biblica della loro tragedia, è diventato
nel corso dei decenni una formula adottata dagli storici per definire una
particolare tipologia di spostamento forzato di popolazione, diverso nella
forma ma non nei risultati, dalle deportazioni e dalle espulsioni.
Esodi dunque (Ferrara e Pianciola) sono "quei casi in
cui un gruppo di abitanti fu indotto a fuoriuscire dai confini politici del
territorio in cui viveva a causa di pressioni esercitate dal governo che lo
controllava, sia in termini di violenza diretta sia in termini di privazione di
diritti, soprattutto in corrispondenza di un radicale mutamento politico che
investiva le relazioni tra stati (conflitti bellici, crolli e costruzioni di
stati). In tali circostanze la migrazione forzata non era il chiaro obiettivo
iniziale del governo in questione, né tantomeno quest’ultimo la organizzò; il
risultato finale fu comunque l’emigrazione quasi totale del gruppo. Questi casi
vanno senza dubbio compresi nel novero delle migrazioni forzate, anche se
furono gli unici in cui la scelta di migrare fatta dai singoli o dalle singole
famiglie ma estesasi fino ad acquisire una dimensione di massa, ebbe un ruolo
attivo nello spostamento. Essi furono inoltre gli unici in cui le condizioni di
arrivo (per esempio la concessione della cittadinanza nel paese di accoglienza)
furono un fattore importante”.
Sulle dimensioni reali dell’esodo è regnata a lungo
l’incertezza, alimentata da stime parziali o, al contrario, gonfiate. Ad
esempio, la cifra “ufficiale” di 350.000 profughi diffusa dalle associazioni
dei profughi non ha alcuna consistenza scientifica, ma deriva semplicemente da
un accordo interassociativo per evitare corse al rialzo, peraltro prive di
senso: dal punto di vista interpretativo, infatti, ciò che conta non è la cifra
assoluta, ma il fatto che a doversene andare fu comunque la quasi totalità del
gruppo nazionale italiano. In tempi recenti, fra gli studiosi si registra una
certa convergenza sull’ordine di grandezza di circa 300.000 persone che nel
corso del dopoguerra avrebbero abbandonato i territori già appartenenti allo
stato italiano. In stragrande maggioranza si trattava di italiani, ma erano
presenti anche nuclei sloveni e croati.
Va inoltre tenuto presente che l’attribuzione della nazionalità
non è cosa semplice in territori di frontiera, in cui i percorsi di
nazionalizzazione sono stati particolarmente complessi.
L’esodo è stato un fenomeno lungo, durato dal 1944 al 1958,
attraverso fasi diverse. In primo luogo, bisogna distinguere le fughe
clandestine di persone direttamente minacciate, dagli esodi di massa che
coinvolsero intere comunità. Le fughe avvennero con continuità, per terra e per
mare, lungo tutto il periodo e non sempre ebbero esito positivo: molte,
infatti, furono le vittime per mano dei militari jugoslavi. Gli esodi di massa
invece avvennero in genere quando le comunità italiane si convinsero che la
dominazione jugoslava era diventata irreversibile.
Il primo in ordine cronologico fu l’esodo da Zara: iniziò
come sfollamento della città a seguito dei devastanti bombardamenti alleati del
1943/44 e si consolidò in esilio dopo l’ingresso in città delle truppe
jugoslave nell'ottobre 1944. Il secondo esodo fu quello silenzioso da Fiume,
che si svolse gradualmente: nel gennaio 1946 i partiti erano già 20.000 e la
città si svuotò entro il 1948.
A Pola, nel luglio 1946, 28.058 residenti su 31.700
dichiararono di voler lasciare la città in caso di cessione alla Jugoslavia.
Un’ulteriore spinta a partire fu impressa dalla strage di Vergarolla del 18
agosto, che fece un centinaio di vittime e che dalla popolazione venne
attribuita ad una strategia terrorista jugoslava.
L’esodo iniziò a dicembre e coinvolse circa 30.000 persone,
comprese alcune migliaia di istriani confluiti anche da fuori città. Fu quindi
un esodo preventivo, perché il trattato di pace entrò in vigore appena il 15
settembre 1947.
L’ondata successiva riguardò i residenti nei territori
passati alla sovranità jugoslava a seguito del Trattato di pace, che si
avvalsero del diritto di opzione per la cittadinanza italiana entro un anno. Fu
questo il “grande esodo”, che svuotò quasi integralmente le città ed aprì ampi
vuoti anche nelle campagne. Complessivamente, il flusso riguardò circa 130.000
persone e si svolse in due tappe, perché il rigetto delle domande di opzione da
parte delle autorità jugoslave bloccò molti richiedenti, fino alla riapertura
dei termini per le opzioni nel 1951. Dopo quella data, circa 5.000 altri
italiani riuscirono ad esodare attraverso la complessa ed onerosa procedura
dello “svincolo” dalla cittadinanza jugoslava.
L’ultima ondata fu quella degli abitanti la zona B del mai
costituito Territorio libero di Trieste, provvisoriamente amministrata da un
governo militare jugoslavo, i quali fino agli inizi degli anni ’50 sperarono di
poter ritornare a far parte della madrepatria italiana. Già nel 1950 però si
ebbe un picco di un migliaio di partenze, a seguito delle violenze di cui gli
italiani caddero vittime in occasione delle elezioni amministrative del 16
aprile. La definitività della dominazione jugoslava divenne chiara dopo la nota
bipartita anglo-americana dell’8 ottobre 1953 e venne sancita dal Memorandum di
Londra del 26 ottobre 1954. Ne seguì l’esodo quasi totalitario della
popolazione italiana della zona, cui si aggiunsero circa 2.700 abitanti di
alcuni villaggi nei dintorni di Muggia, trasferiti anch’essi alla Jugoslavia a
seguito di una modifica della linea di demarcazione.
Le motivazioni dell’esodo furono molteplici, ma in buona
parte riconducibili alla crisi identitaria che travolse le comunità italiane.
Per comprenderle meglio, conviene distinguere fra motivazioni delle vittime e
intenzioni del potere, salvo poi ricombinare i due piani del discorso.
Nella memoria degli esuli, un posto privilegiato ha la paura.
Si trattava dell’eco del trauma delle foibe, consolidato dalla situazione di
costante insicurezza dovuta all’azione di un regime stalinista, da parte del
quale gli italiani erano visti con pregiudiziale sospetto e che mostrava la
mano pesante non solo verso i reali oppositori, ma nei confronti di chi anche
solo si mostrasse tiepido nel rispondere agli appelli alla mobilitazione. Ne
seguì una serie infinita di abusi, prevaricazioni, intimidazioni, bastonature,
arresti e, talvolta, sparizioni. La paura fu la causa diretta delle fughe
clandestine e quella indiretta dell’indebolimento della capacità di resistenza
delle comunità italiane, ma non costituì in realtà la motivazione principale
dell’esodo.
Maggiormente pesò il ribaltamento generale – una vera
rivoluzione – degli assetti della società locale, dal punto di vista economico,
politico, nazionale, culturale e di classe.
La trasformazione socialista dell’economia socialista
distrusse le basi materiali di buona parte delle comunità italiane: artigiani,
commercianti, negozianti, piccoli e grandi imprenditori, pescatori,
agricoltori. Questi ultimi, se di modesta condizione, poterono inizialmente
giovarsi della distribuzione delle terre dei proprietari maggiori, ma vennero
penalizzati dagli ammassi, dall’ingresso forzato nelle cooperative, dalla
pianificazione delle coltivazioni e dalla sottrazione di braccia per il “lavoro
volontario”. I pubblici dipendenti scontarono la diffidenza dei nuovi
amministratori, ad esempio in settori quali l’istruzione e la magistratura. La
paralisi produttiva mise in crisi operai ed impiegati.
I rapporti fra i “poteri popolari” e gli italiani furono sin
dall’inizio pessimi e peggiorarono col tempo. Solo pochi elementi comunisti
vennero inseriti nelle strutture amministrative e, nonostante il loro zelo
anche a danno dei connazionali non militanti, rimasero ai margini dei processi
decisionali. Fino a quel momento gli italiani avevano detenuto il monopolio del
potere e di colpo ne furono totalmente esclusi; allo stesso modo, mentre fino
ad allora essere italiani aveva costituito un vantaggio, dopo il maggio 1945
divenne una penalizzazione, perché quella italiana veniva considerata una
minoranza subordinata, ed anche un fattore di rischio, perché appartenere al
gruppo nazionale italiano rappresentava di per sé occasione di sospetto. Inoltre,
se l’uso della lingua italiana non era vietato, come pure l’appartenenza alla
cultura italiana, era invece considerato grave reato ogni riferimento ai
contenuti politici dell’identità nazionale italiana, così come si erano
costituiti a partire dal risorgimento dando origine ad un diffuso patriottismo
italiano, che ora veniva trattato come un crimine. Contemporaneamente, il
tentativo delle autorità di ri-slavizzare contro il loro desiderio i cittadini
di origine slovena e croata attraverso la slavizzazione dei cognomi e la
negazione dell’accesso alle scuole italiane, venne percepito come parte di un
attacco generalizzato all’italianità.
Più in generale, tutti i comportamenti, i valori e le
gerarchie consolidate da tempo immemore venivano rimessi in discussione. I ceti
urbani, dominanti fin dai tempi della romanizzazione, si trovarono alla mercé
di quelli rurali, tradizionalmente subordinati, mentre il rovesciamento del
rapporto città/campagna assumeva anche un chiaro connotato di rivalsa
nazionale. Nelle campagne, i coltivatori diretti italiani si scoprirono in
balia degli elementi marginali delle comunità di paese. Sparirono rapidamente i
punti di riferimento consueti del gruppo nazionale italiano: amministratori
locali, insegnanti, sacerdoti, vittime questi ultimi di una persecuzione
religiosa che colpì duramente anche le grandi masse di fedeli.
Il sommarsi di tali elementi, in un clima generale di
immiserimento ed oppressione, generò una diffusa situazione di “spaesamento”,
sintetizzabile nell’espressione “sentirsi stranieri in patria”. Si creò così
una situazione di complessiva invivibilità, nella quale le comunità italiane
giunsero, con ritmi diversi, alla medesima conclusione: mantenere l’identità
italiana, con tutta la densità attribuita a tale espressione, era impossibile
nelle condizioni stabilite dal regime jugoslavo. Da ciò la decisione di
affrontare il rischio dell’esodo.
Quanto agli obiettivi delle autorità jugoslave, fra questi
non rientrava l’eliminazione totale del gruppo nazionale italiano, secondo
un’ipotesi discussa ma scartata nel corso del 1944. Venne perciò varata una
strategia di “integrazione selettiva”, chiamata della “fratellanza italo-slava”
ma riservata ad una minoranza della minoranza italiana. Ne erano infatti
pregiudizialmente esclusi tutti gli italiani di origine etnica slava, che
andavano “ricondotti” alla nazionalità di origine, come pure i “borghesi” –
considerati nemici di classe – ed i “residui del fascismo”, vale a dire quanti
desideravano il mantenimento della sovranità italiana. Destinatari della
politica della “fratellanza” erano quindi solo gli italiani “onesti e buoni”,
cioè quelli disposti a battersi per l’annessione alla Jugoslavia e per la
costruzione del socialismo, nonché disponibili ad accettare tutte le trasformazioni
identitarie indispensabili per rientrare nei parametri fissati dal regime, a
cominciare da un modo diverso di concepire l’italianità. In pratica, era una
politica pensata per la classe operaia di orientamento comunista, per i
contadini poveri e per qualche intellettuale.
L’applicazione della “fratellanza” venne però demandata ai
quadri locali, reclutati durante la lotta partigiana, che alla “fratellanza”
credevano assai poco ed erano invece propensi a vedere in ogni italiano un
fascista. Inoltre, erano abituati a considerare i perplessi come nemici da
“smascherare” ed a convincere i dubbiosi a suon di bastonate. Ben presto i
livelli superiori del partito comunista jugoslavo si resero conto che i membri
dei “poteri popolari” commettevano una miriade di “errori” che compromettevano
il rapporto con la popolazione, non solo italiana, ma non disponevano di una
classe dirigente diversa altrettanto politicamente affidabile. Complessivamente
quindi, i limiti stessi della “fratellanza”, che poneva condizioni di
accettabilità assai pesanti, uniti alle modalità della sua applicazione,
spinsero su di una posizione antagonista nei confronti dei “poteri popolari” la
grande maggioranza della popolazione italiana, mentre la durezza complessiva
del regime intaccava il consenso anche di nuclei consistenti di popolazione
slava.
I nodi vennero al pettine in occasione delle opzioni, quando
le autorità si resero conto che a scegliere in massa la cittadinanza italiana
erano anche gli italiani non etnici, comprese parecchie migliaia di sicuri
croati – già sostenitori del movimento di liberazione – e pure numerosi
proletari di lingua italiana. Ad opzioni in corso, scoppiò anche la crisi del
Cominform a seguito della quale quasi tutti i comunisti italiani si schierarono
con Stalin contro Tito, divenendo quindi anch’essi “nemici del popolo”. Alla
piena delle opzioni, che stava svuotando l’Istria oltre ogni previsione e
desiderio, le autorità cercarono di porre un freno con la repressione, con
l’unico esito di esasperare ulteriormente gli animi. La politica della
“fratellanza” era fallita, anche se formalmente rimase in piedi nei confronti
dei pochissimi italiani non esodati, in gran parte solo perché non ci erano
riusciti.
Una volta arrivati, più o meno fortunosamente, in Italia, gli
esuli ci si trovarono inizialmente assai male. Alle gare di solidarietà
promosse da enti locali e soggetti privati, in particolare cattolici, si
accompagnarono forme di rifiuto antropologico nei confronti di italiani così
diversi (ma sono austriaci o slavi?) ed anche politico da parte comunista nei
confronti di chi fuggiva dalla Jugoslavia socialista e quindi non poteva che
essere fascista. Inoltre, il Paese era stremato dalla guerra e senza risorse
per far fronte alle esigenze di grandi masse di sinistrati, profughi dalla
Venezia Giulia e rientrati dalle colonie. Gli esuli giuliano-dalmati quindi
vennero sventagliati in un gran numero di Centri raccolta disseminati in tutta
Italia, dove le condizioni abitative e sociali lasciavano molto a desiderare. Alcune
migliaia non ce la fecero a resistere e presero la via dell’emigrazione
transoceanica. Per gli altri la situazione cominciò a migliorare nella seconda
metà degli anni ’50.
Per un verso, il governo fu in grado di avviare un massiccio
programma di assistenza, comprendente sussidi, collegi per minori, riserve di
posti nella pubblica amministrazione ed ampio piano di edilizia popolare, che
consentì ad esempio la realizzazione di veri e propri quartieri
giuliano-dalmati in 42 città italiane. Nella provincia di Trieste, in cui erano
confluiti i profughi dalla zona B, vennero realizzati anche alcuni villaggi
istriani, collocati nel “corridoio” territoriale che collega la città al resto
del Paese e nel quale fino ad allora non esistevano insediamenti italiani. In
sinergia con i soggetti pubblici operarono anche quelli privati, in particolare
l’Opera profughi giuliani e dalmati, il CLN dell’Istria, la Pontificia Opera di
Assistenza, oltre a singoli sacerdoti, circoli di benefattori e madrine, e
molti altri ancora
Per l’altro verso, il boom economico favorì la collocazione degli esuli nel mercato del lavoro, tanto che si arrivò rapidamente ad una piena integrazione sociale. Rimase però la ferita della memoria, ché il prezzo dell’integrazione, in un’Italia che voleva gettarsi alle spalle i brutti ricordi della guerra e del dopoguerra, passò anche attraverso il silenzio e la rimozione dell’esperienza dello sradicamento. Quella ferita sarebbe stata sanata soltanto con il pubblico riconoscimento ottenuto nel 2004 con l’istituzione del Giorno del Ricordo.
Il Giorno del Ricordo: Alcune considerazioni politiche in un articolo del Prof. Paolo Razzuoli:
Dal 2005 ogni anno in Italia il 10 febbraio si celebra il
Giorno del ricordo, giornata istituita per commemorare i tragici episodi
vissuti dagli italiani nell'area del nostro confine nord-orientale, nel post
armistizio e nel dopoguerra.
La data è stata scelta giacché proprio il 10 febbraio 1947
venne firmato il "Trattato di pace" che assegnava una parte della
Venezia Giulia, l'Istria, Fiume e Zara alla Jugoslavia.
Gli eventi più radicati nell'immaginario comune sono quelli
terribili delle foibe, gli inghiottitoi naturali che nel corso della Seconda
guerra mondiale furono usati a più riprese prima dai fascisti italiani e poi
dai partigiani di Tito per eliminare fisicamente gli avversari politici.
Oltre alla tragica pagina delle foibe, c'è un altro evento
che ha segnato la memoria degli italiani di quegli anni: l'esodo istriano e
giuliano dalmata, cioè l'abbandono progressivo dei luoghi dell'Istria e della
Dalmazia in cui gli italiani erano nati e in cui si erano insediati nei secoli,
in seguito all'ascesa del nuovo regime comunista di Tito.
Gente che ha abbandonato le proprie terre, lasciandovi tutto
ciò che avevano, e che in Italia non raramente hanno dovuto fare i conti con un
ambiente ostile, anche se tanti sono stati gli episodi di solidarietà, e
incisivi sono stati anche i provvedimenti legislativi.
Pensiamo un attimo alla temperie politico-culturale degli
anni immediatamente successivi al conflitto.
Forte era la presenza della sinistra ed in particolare del
Pci, che vedeva con estrema diffidenza chi abbandonava una terra su cui si
stava edificando un regime comunista: per loro una sorta di paradiso in terra.
Chi scappava era secondo questa prospettiva quindi dalla
parte del torto, o perché rifiutavano il modello verso cui il Pci aspirava
anche in Italia, o perché erano fascisti che cercavano di sottrarsi alle loro
responsabilità.
Non dimentichiamo poi il contesto di estrema miseria di quel
tempo. C’era poco per tutti, e ognuno che si aggiungeva era uno in più con cui
quel poco che c’era andava condiviso.
Un quadro molto complesso, in cui diffidenze ideologiche e
diffusa povertà si incrociarono costituendo una miscela che generò quel clima
di distacco con cui vennero di sovente accolti.
Fortunatamente, a temperare le sofferenze di questa gente
intervennero i numerosi atti di solidarietà delle comunità locali, unitamente a
provvedimenti legislativi che favorirono il reinserimento lavorativo nei nuovi
contesti in cui gli esodati vennero a trovarsi.
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