All'alba di questo nuovo anno provo a cimentarmi con un tema molto complesso e scabroso: quello della salute della democrazia e delle sue istituzioni. Tema
che non riguarda pertanto
esclusivamente l'Italia, ma che investe tutto il mondo che si riconosce nella
democrazia rappresentativa e nelle sue istituzioni.
E' infatti di questa democrazia che tratterò, pur sapendo che storicamente anche in tempi recenti altre forme ne sono esistite quali, ad esempio, le cosiddette "democrazie popolari".
Io credo però che la democrazia o è liberale o non è democrazia. E' pertanto democrazia quella forma di governo basata sullo Stato di diritto, che garantisce integralmente i diritti umani e le libertà, che garantisce le libere elezioni dei governanti. Insomma quella forma di governo che, a partire dalla rivoluzione francese ha fatto, se pur con dolorose parentesi, dell'Occidente il propulsore del rispetto dei diritti fondamentali dell'essere umano.
Ma stiamo attraversando una
fase storica in cui la democrazia non gode di buona salute.
Se nella seconda metà del XX
secolo la democrazia viveva una fase espansiva - Nel 2000 ben 116 Paesi (il 69%
del totale) erano considerati democrazie -
nell'ultimo decennio abbiamo
assistito ad una Diminuzione degli stati democratici con conseguente aumento di
forme autocratiche.
Attraversiamo un'epoca di cambiamenti radicali che influiscono sui comportamenti individuali e sugli assetti socio-politici globali. Siamo immersi in un vero trauma della storia. I cittadini sono confusi e non si sentono rappresentati; votano più contro che a favore di qualcosa. Si afferma un'antipolitica rampante. I partiti hanno perso legittimità sociale e non riescono più ad avere il polso della situazione .
Per decenni, il connubio tra democrazia liberale e capitalismo ha garantito benessere e prosperità. Oggi, l'assetto politico ed economico dell'Occidente è minato da diseguaglianze, populismi e politiche identitarie. Invecchiamento e denatalità, una bassa crescita economica e flussi finanziari e migratori mal ponderati alimentano il disagio sociale. Contesti geopolitici, tecnologici ed energetici in rivoluzione fanno il resto, erodendo le democrazie dall'interno.
Insomma, la minaccia proviene
più dall'interno che da fattori esterni.
Le democrazie sono in affanno di fronte alle grandi sfide del tempo che viviamo: globalizzazione, immigrazioni, rivoluzione tecnologica, cambiamenti climatici e sostenibilità ambientale.
E a rendere il contesto ancor più grave, si sono aggiunte pandemia e guerra .
Un po' ovunque nel mondo
occidentale si è sensibilmente abbassata la partecipazione al voto. Quando la
partecipazione politica è bassa - come ad esempio
da tempo in Italia - le sedi
della rappresentatività - per esempio: le elezioni, il Parlamento - si
sviliscono, il "capo" entra in rapporto diretto con
il popolo e aumenta il
rischio che venga manipolata la volontà dei cittadini. Di conseguenza, il
consenso politico potrebbe orientarsi verso soluzioni
hobbesiane di accentramento del potere.
Si ha l'impressione di
trovarci di fronte all'avvio di un'epoca nuova, in cui la democrazia liberale -
da tempo in crisi - potrebbe traballare sotto i colpi
polarizzanti dell'autocrazia,
e l'impero potrebbe riproporsi come sistema socioeconomico alternativo allo
Stato-nazione (arrivano alla stessa conclusione
autori di diversa estrazione
ideologica, quali Hardt e Negri, 2000 e Ferguson, 2003). Il contesto - più che
in evoluzione - è in rivoluzione: trattati
e confini ignorati, violazioni del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite, ritorno della minaccia nucleare.
Un contesto che genera forti
tensioni ed inquietudini, a cui la politica non sembra riuscire a dare risposte
credibili, capaci di rispondere alle paure
ed insicurezze del presente
e, nel contempo, capace di immaginare una prospettiva di futuro.
Anzi, assistiamo ad una
politica sempre più appiattita sul "giorno per giorno", incollata
alla ricerca del consenso immediato, attenta sostanzialmente
alla ricerca del consenso
anche quando ciò implica promesse elettorali chiaramente improponibili.
Insomma, una sorta di "dittatura del presente", ancorata
al sondaggio del giorno, in cui non si può riconoscere quell'orizzonte di prospettiva che dovrebbe guidare ogni autentico statista.
Senza false indulgenze, va
poi riconosciuto che In quanto sistema di governo, la democrazia
rappresentativa ha importanti responsabilità su cui non si possono
chiudere gli occhi. Un
importante tema da approfondire consiste nel cercare di capire se tali
manchevolezze sono inevitabili nell'evoluzione del sistema,
oppure se si sono prodotte
per l'insorgere di un virus malefico di fronte al quale si sarebbe potuto
ergere una adeguata difesa di anticorpi.
Ma vediamo alcune di queste
manchevolezze che necessitano al più presto di un serio sforzo al fine di
rimuoverle:
- non è riuscita ad arrestare
i processi di separazione fra le società reali e le istituzioni di governo;
- ha sacrificato
sistematicamente il domani all'oggi;
- ha dimostrato incapacità di
sviluppare e perseguire strategie di lungo termine, che si sviluppano su archi
di tempo superiori alle legislature;
- non ha saputo adeguatamente
rappresentare le generazioni future;
- non ha preteso la
competenza dei candidati, né prima né dopo le elezioni, e ha mandato - non
raramente - al governo dei dilettanti;
- ha consentito l'elezione a chi promette "tutto a tutti" e non ha squalificato chi ha preso impegni irrealizzabili, senza preoccuparsi delle conseguenze.
Un terreno quindi molto
fertile per l'affermazione di un populismo che, promettendo soluzioni semplici
a problemi complessi, mina ulteriormente il dibattito
politico e ridesta desideri
di "leader forte o di spinte sovraniste"; un ritorno a fantasmi di un
passato che ha portato i peggiori drammi vissuti dall'umanità.
Un populismo anti-sistema si
sta affermando in vaste parti del mondo. Negli ultimi anni, in molte parti del
pianeta le sedi di rappresentanza democratica
- partiti e Parlamento su
tutte - si sono svilite. L'elite è percepita come casta privilegiata e
corrotta. La frattura tra establishment ed elettori pare
irreversibile. Attraverso un
linguaggio semplice e diretto, i movimenti populisti conquistano un vasto
consenso elettorale, presentandosi come i rappresentanti
degli interessi del popolo contro una élite corrotta e distante dalle esigenze dei cittadini.
Il popolo, questo convitato
di pietra nel quale, come la storia ci insegna, si è fatto tutto ed il
contrario di tutto. Anche Stalin, Hitler e Mussolini
dichiaravano di governare in nome del popolo!
Una democrazia che, aldilà
della retorica, rischia di trasformarsi da "democrazia
rappresentativa" in "democrazia recitativa". Una democrazia
apparente
insomma e - come ammoniva Efisio Melis - «Si può eliminare facilmente una vera dittatura, ma è difficilissimo eliminare una fìnta democrazia».
Ma torniamo un attimo sul
populismo.
In realtà, come lo definisce
il Professore ordinario dell'Università di Firenze Marco Tarchi, il populismo è
una mentalità caratteristica. Le mentalità
sono modi di pensare e di
sentire più emotivi che razionali”. Se l'ideologia è riflessione,
auto-interpretazione, la mentalità è una predisposizione psichica”
nella quale prevalgono i
sentimenti, gli umori e il carattere di un soggetto”.
Il termine sembra calzare
alla perfezione per un fenomeno effettivamente più emotivo che razionale.
Quindi si può identificare il
populismo come: una specifica forma mentis, dipendente da una visione
dell'ordine sociale alla cui base sta la credenza nelle
virtù innate del popolo, il
cui primato quale fonte di legittimazione dell'azione politica e di governo è
apertamente rivendicata.
È chiaro che il populismo può
assumere forme e livelli di intensità molto diversi che dipendono da: i
differenti significati attribuiti alla nozione di
“popolo”, le circostanze
strutturali in cui si verifica e le caratteristiche dei suoi attori. Questo
perché il popolo (così come l'élite) sono delle “comunità
immaginate” il cui oggetto
varia notevolmente da un attore populista all'altro e anche all'interno della
visione predicata da un certo attore. E, l'inclusione
nella comunità organica, implica anche l'erezione di una frontiera che possa escludere i “nemici” del popolo.
A questo punto si impone la
domanda su come fare per dare nuova linfa alla democrazia.
Una domanda a cui non è
facile dare una risposta, in ragione della quantità e complessità dei temi
richiamati.
Penso tuttavia che possano essere individuate due categorie di problemi che possono guidarci nell'immaginare alcune risposte.
La prima categoria riguarda
il modello di sviluppo che dovrà offrire risposte credibili alle sfide della
contemporaneità. Quindi dare risposte credibili
al tema delle disuguaglianze,
mostrare di saper gestire la globalizzazione, immaginare una strategia
credibile e percorribile rispetto al tema della sostenibilità,
saper gestire gli impatti
della rivoluzione tecnologica a partire dall'intelligenza artificiale, saper
mettere a fuoco politiche di gestione dei flussi
immigratori, che ormai non sono più un fatto emergenziale bensì un dato strutturale.
La seconda categoria di
problemi riguarda la credibilità della politica e delle istituzioni in genere.
occorre un serio sforzo per recuperare un clima di
fiducia fra elettori ed
eletti, rilanciando e non svilendo il ruolo delle istituzioni della democrazia
rappresentativa.
Quindi invertendo la rotta
che tanto sembra affascinare oggi molte democrazie: abbandoniamo il miraggio
del rapporto diretto del capo con le masse, e diamo
nuova rappresentatività e dignità alle istituzioni, prima fra tutte il Parlamento.
Questa lunga analisi per
introdurre la situazione italiana che, nei suoi aspetti generali, non
differisce da quella di molti altri paesi in cui la democrazia
rappresentativa è in
sofferenza.
Alto è il rischio
dell'impatto esplosivo fra crisi politica e crisi sociale.
Abbiamo un finto bipolarismo
formato da forze eterogenee, concorrenti fra di loro, magari capaci di vincere
le elezioni mediante patti elettorali, ma poi
incapaci di governare poiché
divise sui grandi temi strategici.
La crescita è anemica, la
produttività ristagna. Aumentano l'inflazione e la povertà. In media, i
cittadini sono sempre meno ricchi e sempre più diseguali.
La popolazione invecchia. Le
nuove generazioni soffrono. Per la prima volta dal dopoguerra, i giovani stanno
peggio di chi li ha preceduti ed emigrano.
La disuguaglianza si acuisce
tra individui (disuguaglianza dei redditi) e tra padri e figli (disuguaglianza
intergenerazionale). La "corsa dei singoli"
- alimentata da egoismo,
propensione ad apparire ed esasperazione dell'autoreferenzialità - disarticola
il corpo sociale e porta a compresenza, non convivenza.
L'immigrazione, mal gestita
da governi di ogni colore, alimenta il disagio sociale.
E' cambiata anche la natura
dello scontro politico: da quello tradizionale tra destra e sinistra con ben
identificabili blocchi sociali di riferimento,
si è passati ad uno scontro
tra sovranisti ed antisovranisti e fra sostenitori di identitarismi non più
radicati a blocchi sociali di riferimento, per
cui a destra sembrano votare
i ceti più poveri mentre la borghesia cittadina è più orientata a sinistra. I
cittadini non sembrano saper valutare né interpretare
la realtà; in Italia il 27,7%
della popolazione, pur sapendo leggere e scrivere, è analfabeta funzionale.
Aumentano le fake news. La fiducia nella classe
dirigente è ai minimi, i
partiti tradizionali sono scomparsi. Le aspirazioni dei cittadini sono sempre
meno capite. Crescono rabbia, rigetto dello status
quo, e voto di protesta di
chi si sente tagliato fuori.
Un quadro che emerge non solo dalle urne, ma che viene confermato dai più seri studi statistici, ad esempio dell'Istat o del Censis.
Uno scenario di disagio che
non può essere affrontato con scorciatoie istituzionali che forse potranno
essere buone quali slogan elettorali, ma non certo
utili per affrontare con
serietà la complessità della situazione del Paese.
Certo le riforme possono aiutare, anzi direi che sono anche necessarie, ma vanno inserite in un contesto di totale ripensamento della qualità della politica.
Infatti, se non si troverà la
capacità di affrontare in profondità il tema della qualità della politica (e
della classe politica), nessuna riforma potrà
consentire all'Italia di liberarsi dai lacci in cui sembra essersi impigliata.
Così va affrontato - a mio
modo di vedere - il tema del premierato di cui oggi si parla.
Come in varie altre occasioni
ho avuto modo di scrivere, prendo le distanze da coloro che si stracciano le
vesti ogni qualvolta si tenta una riforma che
rafforzi i poteri del governo
e di chi lo guida. Lo dico ancora una volta citando Calamandrei: «Le dittature
sorgono non dai governi che governano e che
durano, ma dall'impossibilità
di governare dei governi democratici».
L'errore consiste nel ridurre
i problemi italiani al rafforzamento dei poteri del premier, mentre essi sono
quantomeno di due ordini: certo le debolezze
istituzionali, ma anche, e non di minor rilevanza, lo scadimento della qualità della politica.
Anche l'elettorato italiano è
ormai fortemente influenzato dai tratti del populismo sopra descritti, germi
avvelenati che, oltre a compromettere la coesione
sociale, impediscono quella riforma della politica di cui non si può fare a meno.
Dopo anni di appelli al
popolo, è forse giunta l'ora di un cambio di passo. Qui non si intende certo
mettere in discussione la fondamentale conquista del
suffragio universale. Non si
pensa certo di porre orecchio alla "Epistocrazia", una democrazia
riservata a coloro che possiedono certe competenze di base.
Si pensa tuttavia che stante
gli elementi che possono influenzare l'elettorato, elementi anche non
controllabili - come i social - in ambito nazionale,
sia opportuno dare nuovo
ruolo agli strumenti propri della democrazia rappresentativa, a partire dal
Parlamento che di tale forma è la massima espressione.
Esigenza ancor più sentita
laddove si consideri la crisi dei partiti tradizionali che, oltre a offrire una
straordinaria opportunità di formazione politica,
rappresentavano strumenti di mediazione fra società ed istituzioni.
E qui si pone a mio avviso
una domanda: Può funzionare la democrazia senza i partiti?
La nostra Costituzione ne
indica il ruolo all'Art.49 che così testualmente recita: "Tutti i
cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti
per concorrere con metodo
democratico a determinare la politica nazionale."
E' legittimo ritenere che in
assenza dei partiti siano realtà non controllabili (quindi con metodo non
democratico) a determinare gli esiti delle scelte
politiche.
Delresto la democrazia è
stata anche calpestata in modo palese, da leggi elettorali che impedendo agli
elettori la scelta dei candidati, hanno di fatto
delegato a poche decine di persone la "nomina" del Parlamento.
In questo scenario penso che
più che al rafforzamento di organi monocratici occorra puntare alla
riqualificazione degli organi di rappresentanza, in primo
luogo quindi il Parlamento, rivalorizzandone altresì la funzione di sede della mediazione politica, che potrà assolvere purché ne venga recuperata la rappresentatività.
Congiuntamente al
ripensamento della qualità della politica si potrà metter mano anche agli
assetti istituzionali, non riducendoli al tema del premierato,
ma pensando anche ad altri
temi quali il superamento del bicameralismo paritario, una riscrittura del
titolo V della Costituzione per riportare un po'
d'ordine in una materia
disastrosamente riscritta con la riforma del 2001 e, certamente, ripensando i
poteri del Capo del Governo e la disciplina della
fiducia/sfiducia.
Tornando al tema della
qualità della politica, sono convinto che il punto di partenza è quello della
ormai inadeguatezza di questo finto bipolarismo. SE
è vero che siamo in una fase
di imbarbarimento e radicalizzazione dello scontro, è dall'immaginare una cura
di questi mali che occorre partire, puntando
sul rafforzamento dei fattori
centripedi di stabilizzazione del sistema. Ruolo a cui potrebbe essere chiamata
la cultura liberal-riformista, se riuscisse
a ritrovarsi attorno a
strumenti politicamente adeguati.
Obiettivo che, a mio modo di
vedere, può essere raggiunto solo tornando ad una legge elettorale di impianto
proporzionale, certo con uno sbarramento in
basso per evitare eccessive
frammentazioni.
Sarà poi un Parlamento
auspicabilmente reso più rappresentativo dalla possibilità di espressione delle
preferenze, ad assumersi il compito della mediazione
politica capace di produrre un accordo di maggioranza ancorato ad un programma condiviso.
Già sento piovermi addosso
l'accusa di voler portare indietro le lancette della storia. Ebbene, niente di
male qualora ciò venga consigliato da una seria
analisi di contesto.
Rispondo con John Stuart
Mill: " le regole non sono né dovrebbero essere di obbligo eterno, ma
variano e devono variare più o meno da un'epoca all'altra,
man mano che le coscienze
delle nazioni diventano più illuminate e cambiano le esigenze della società
politica».
Ebbene, proprio dalla
valutazione delle profonde differenze fra questa fase e le precedenti, non ho
alcuna difficoltà a dire che negli anni '90 ero sostenitore
del maggioritario, mentre
attualmente sono convintamente proporzionalista.
Mi si obietta altresì che in
Parlamento non ci sono i numeri: ebbene, la storia ci insegna che certe scelte
prima impossibili, con i mutamenti di scenario
possono diventare possibili. E' però importante crederci ed immaginare gli scenari politici un po' oltre il proprio naso (alias tornaconto).
Avviandomi alla conclusione,
in questo inizio del nuovo anno ho voluto affrontare il tema della democrazia
giacché il 2024 vedrà due appuntamenti che fortemente
ne influenzeranno i destini.
Prendiamoci nota di due date:
la prima è quella dei giorni 6, 7, 8 e 9 giugno (per l'Italia il 9 giugno), in
cui si voterà per il rinnovo del Parlamento
europeo; l'altra è il 5
novembre, giorno delle presidenziali negli Stati Uniti.
La democrazia si trova come
ad un bivio fra due strade che portano a mete deltutto diverse e lontane. Gli
esiti di queste elezioni decideranno quali delle
due strade imboccherà.
Lucca, 1 gennaio 2024
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